
Titolo originale: Das Lehrerzimmer
Regia: İlker Çatak
Sceneggiatura: İlker Çatak, Johannes Duncker
Fotografia: Judith Kaufmann
Montaggio: Gesa Jäger
Interpreti: Anne-Kathrin Gummich, Antonia Luise Krämer, Özgür Karadeniz, Can Rodenbostel, Elsa Krieger, Eva Löbau, Kathrin Wehlisch, Leonard Stettnisch, Leonie Benesch, Lisa Marie Trense, Michael Klammer, Oscar Zickur, Padmé Hamdemir, Rafael Stachowiak, Sara Bauerett, Uygar Tamer, Vincent Stachowiak
Colonna sonora: Marvin Miller
Paese/Anno: Germania | 2023
Durata: 98′
SINOSSI
Carla Nowak (Leonie Benesch) è una giovane e promettente insegnante al suo primo incarico. Tutto sembra andare bene, fino a quando una serie di piccoli furti all’interno della scuola mette in subbuglio l’istituto. Quando i sospetti cadono su uno dei suoi studenti, Carla decide di andare di indagare personalmente, scatenando una serie inarrestabile di reazioni a catana
NOTE DI PRODUZIONE
La prosecuzione di una partnership creativa di successo
Con La sala professori, il regista İlker Çatak è al suo quarto lungometraggio, il secondo realizzato con Ingo Fliess, manager della società di produzione con sede a Monaco, la If… Productions. Questa partnership creativa ha avuto inizio nel 2019 con il film molto apprezzato I Was, I Am, I Will Be, presentato al Munich Film Festival, dove è stato premiato con il New German Cinema Award sia per la sceneggiatura che per l’interpretazione di Ogulcan Arman Uslu. Al successo riscosso al festival di Monaco hanno fatto seguito inviti e premi in altri festival, per concludere in bellezza con le cinque candidature ai German Film Awards del 2020, dove I Was, I Am, I Will Be si è aggiudicato un premio Lola di bronzo nella categoria per il miglior film. Dopo questa felice esperienza condivisa, Çatak e Fliess volevano affrontare insieme una nuova avventura produttiva.
La sceneggiatura de La sala professori è stata scritta in pochi mesi, ‘cosa inusuale’, come ammette il produttore. İlker Çatak l’ha redatta con il suo ex-compagno di scuola e partner creativo di lunga data Johannes Duncker. Perfino la prima stesura della sceneggiatura era già ‘molto potente’ agli occhi del produttore. Alcune idee, come la perquisizione degli studenti, sono basate su eventi realmente accaduti nella scuola frequentata da Çatak e Duncker.
İlker Çatak è descritto da Fliess come un artista pieno di dubbi nella fase di sviluppo del materiale e qualche volta anche mentre dirige. “Non è uno che pretende di sapere sempre quale sia la prossima mossa da fare. Ma una volta che ha trovato la sua strada, va avanti senza esitazioni”, dice Fliess. L’ego non ha giocato alcun ruolo nel processo di scrittura con Johannes Duncker “İlker e Johannes si sono chiesti ad ogni passaggio: è giusto? È abbastanza buono? Quali sono i sentieri non ancora battuti? Quali sono i sentieri che nessuno ha ancora mai percorso? Questa in effetti dovrebbe essere l’ambizione per tutte le produzioni. È un obiettivo condiviso da tutti noi tre”.
Riguardo alle qualità umane, Fliess testimonia della grande curiosità di Çatak e della sua temerarietà: “İlker ama le persone, le apprezza e non le giudica. Percepisce qualsiasi cosa con grande interesse”. Questa propensione se la porta dietro sul set. “Lo sguardo di İlker è impeccabile. Allo stesso tempo accetta con gratitudine consigli e aiuto. Il che non significa che sia in balia di opinioni diverse. È consapevole di non poter fare un film da solo, ma sa che tutto deve passare attraverso di lui, deve poter conoscere ogni aspetto per poter lavorare al meglio.” Il produttore vede la grande forza del regista nella sua attenzione ai piccoli gesti, i dettagli che potrebbero essere considerati non necessari ma che rendono tutto reale, con il dubbio che appare chiaramente sui volti dei protagonisti, sui quali si legge l’esitazione. “İlker è estremamente musicale, ha un ottimo senso del ritmo e sa sempre quando si sta per andare troppo oltre, quando bisogna fermarsi. Talvolta è anche impaziente, ma questo è positivo! Il suo ritmo elevato trasmette energia e tensione positiva. Allo stesso tempo queste qualità si combinano in lui con una grande umiltà, cosa che rende estremamente piacevole lavorare con lui”.
Un cast credibile
Quando si arriva a discutere del cast di un film, la parola d’ordine per Ingo Fliess è ‘credibilità’. È questo l’obiettivo principale, la cosa più importante in tutti i film presentati
con il marchio della sua casa di produzione. Per il casting dei ruoli degli adulti de La sala professori, Fliess e Çatak hanno lavorato di nuovo con la celebre direttrice casting Simone Bär (purtroppo scomparsa all’inizio del 2023 dopo una lunga malattia − una perdita che non potrà essere mai superata…) dopo aver collaborato con lei per il film I Was, I Am, I Will Be. Per il ruolo della protagonista, l’insegnante Carla Nowak, la Bär aveva proposto sei attrici, una delle quali era Leonie Benesch.
La Benesch ha lavorato in passato con Michael Haneke (The White Ribbon), più di recente è apparsa in “Babylon Berlin” e ha un’esperienza internazionale grazie alla presenza in serie quali “Spy City”, “The Crown” o, più recentemente, “In 80 Tagen um die Welt”, ed è nota anche per la sua partecipazione a “The Swarm”, grande successo del 2023.
“Leonie è stato un vero colpo di fortuna. È brillante nel suo mestiere e possiede una tecnica notevole. Credo che La sala professori sia stato il film giusto per lei, al momento giusto. Non è facile cogliere l’attimo in cui sia libera, e chissà se lavorerà ancora in Germania dopo ‘The Swarm’. Sono assolutamente convinto che il pubblico vedrà Leonie con occhi completamente diversi dopo il nostro film”.
Le parti per il resto del cast corale del film dovevano essere assegnate ad attori di prima classe. “Per ‘prima classe’ non intendo famosi”, spiega Fliess, precisando. Il casting è stato fatto interamente sulla base del tema del film, di ciò che potesse dar vita a interazioni tra personaggi complementari, che creasse un attrito costruttivo. “Il nostro cast non è composto da volti sconosciuti, ma non è neanche caratterizzato dalla presenza di ‘star’. Sarebbe stato un errore. La nostra prima preoccupazione è sempre stata quella di avere personaggi credibili”.
Questo aspetto ha costituito una priorità anche per i ruoli dei bambini. Per il regista e il produttore era importante mettere insieme un gruppo che trasmettesse la sensazione di essere una vera classe, anziché scegliere alcuni bambini per i ruoli ‘parlanti’ e poi alcune comparse come riempimento per la macchina da presa. Pertanto il processo si è rivelato elaborato; si trattava di trovare 23 bambini per la seconda media di Carla Nowak, con un lavoro di casting enorme, senza decidere in anticipo con precisione chi avrebbe avuto un ruolo di primo piano e chi invece avrebbe avuto un ruolo più secondario. Ciascun bambino avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di agire come se facesse parte della comunità della classe. Per questo aspetto la produzione ha beneficiato dell’aiuto di Patrick Dreikauss, esperto direttore casting per attori bambini, mentre un suggerimento di Michael Klammer è stato determinante per la scelta del protagonista, Oskar. “Un giorno Michael ci ha mostrato una foto di suo figlio Leonard, che aveva proprio l’età giusta. Gli abbiamo fatto recitare una scena in video e siamo rimasti tutti a bocca aperta. Così abbiamo affidato il ruolo di Oskar a Leo Stettnisch”, racconta Ingo Fliess, che rivela che anche un altro dei giovani attori è figlio di uno degli interpreti adulti: Vincent Stachowiak, che interpreta Tom, è il figlio di Rafael Stachowiak.
Il duo formato da Çatak e dalla direttrice della fotografia Judith Kaufmann ha poi utilizzato per le riprese un metodo grazie al quale i bambini non hanno mai avuto la sensazione di dover recitare in risposta ad un comando. Molto è venuto fuori in modo naturale in un ambiente in cui è stato raramente necessario intervenire, e nel quale le luci e i microfoni erano già stati fissati in precedenza. Questo ha permesso di ottenere la desiderata verosimiglianza e molta naturalezza. “Con i bambini è permesso girare solo cinque ore al giorno. Non volevamo rischiare perdite di tempo dovute a troppe preparazioni; volevamo
invece creare una sistemazione di base per delle riprese rapide, in un ambiente in cui i bambini si sentissero a proprio agio”, afferma il produttore.
Le lezioni hanno inizio
La sala professori è stato finanziato come di consueto, come una co-produzione con emittenti televisive pubbliche, in questo caso ZDF e Arte, nelle persone rispettivamente di Alexandra Staib e Barbara Häbe. Oltre ai finanziamenti già ottenuti per I Was, I Am, I Will Be, Ingo Fliess ha potuto contare sul sostegno di DFFF, BKM e MOIN. “Ad Amburgo, dove abbiamo girato tutto, İlker è sempre accolto a braccia aperte”, dice il produttore. Alamode Films si è poi aggiunta come distributore tedesco sulla base della sceneggiatura.
Sebbene La sala professori sia stato girato ad Amburgo, nella storia niente permette di identificare quella città. Il film non è legato ad un luogo particolare. Avrebbe potuto svolgersi in qualsiasi altro posto della Germania. Era importante per İlker Çatak rimanere per questo aspetto il più vago possibile.
Le riprese sono state realizzate nell’edificio e nell’intera area di una ex accademia teatrale nella Hebebrandstraße di Hamburg-Winterhude. Trovare una vera scuola si è dimostrato difficile per ragioni logistiche. “Dell’accademia teatrale ci è piaciuta molto l’architettura progressista degli anni ’60. Tra l’altro, per lo stile architettonico delle nostre scuole, il tempo si è fermato proprio a quegli anni”, afferma il produttore. Cosa ancora più importante, il team ha potuto modificare l’edificio di Hebebrandstrasse a proprio piacimento e per le proprie esigenze. La sala professori che dà il titolo al film è stata completamente ricostruita dalla scenografa Zazie Knepper in un vasto atrio vuoto.
Anche l’ampia scalinata e i lunghi corridoi hanno rappresentato un’attrattiva per le riprese in Hebebrandstrasse. I toni di colore del film sono stati determinati dall’architettura dell’accademia teatrale. La terna del marrone dei corrimano di legno, del nero antracite dei pavimenti di marmo e del blu delle porte era decisamente dominante ed è stata messa ancora più in risalto dal lavoro dei dipartimenti scene e costumi. La palestra del film, che appartiene all’Albert Schweitzer Gymnasium, mostra il tipico schema di colore delle palestre, con muri in mattoncini rossi e pavimento blu.
La genericità che caratterizza il set e le scenografie è stata la cifra stilistica adottata anche dal costumista Christian Röhrs. İlker Çatak non voleva assolutamente che il film fosse collocabile nel presente. “Eppure paradossalmente il nostro film appare comunque attuale perché un sacco di gente oggi se ne va in giro sfoggiando un look anni ’80”, dice Ingo Fliess. Röhrs, che è un grande collezionista di oggetti vintage per la sua collezione personale, è stato d’accordo con Çatak sull’idea di vestire gli attori con un tocco tardo-hippie anni ’80. L’assenza di marche e di loghi contribuisce a rendere la storia senza tempo, così come l’assenza quasi totale di dispositivi elettronici. “L’approccio visivo sottolinea l’immagine della scuola. Mostriamo una scuola di oggi come se fosse quella di alcuni decenni fa, perché la scuola di oggi è la stessa di alcuni decenni fa”, conclude il produttore.
Una riflessione critica sul nostro presente
Ingo Fliess spera che La sala professori venga apprezzato da una platea vasta. “L’esperienza della scuola è onnipresente nelle nostre vite. Siamo stati tutti studenti o siamo ancora insegnanti, e abbiamo punti di vista diversi sulla scuola”. La scuola è un momento formativo per tutti; scopri chi sei, come ti comporti, come risolvi i conflitti. “Allo stesso tempo, non è forse allettante andare a vedere un film che si intitola La sala professori, visto che molti di noi non sono mai stati in una sala professori e spesso si sono chiesti cosa succedesse lì dentro?” Ma il nuovo film di İlker Çatak non si limita a consentire di dare un’occhiata alla sala professori. “Fondamentalmente La sala professori è un film sulla nostra società inquieta. Nessuno affronta il problema alla radice, tutti si limitano a parlare di cosa bisognerebbe fare. Il film è una puntuale riflessione critica sul nostro presente”.
CONVERSAZIONE CON İLKER ÇATAK
“Il processo di girare un film che si è anche scritto è sempre un viaggio nell’ignoto”.
Ricordi i tempi in cui andavi a scuola?
I miei ricordi sono in gran parte bellissimi. Sono sempre stato molto bravo a scuola. Ho fatto le scuole in Germania fino alla seconda media, poi mi sono trasferito a Istanbul con i miei genitori. I miei anni di scuola sono stati molto formativi, cosa che incide sulla crescita, sugli anni dell’adolescenza. Mi sono confrontato con un sistema scolastico completamente diverso. Vestivamo uniformi, abbiamo imparato a farci il nodo alla cravatta ma sentivamo anche di vivere in una specie di bozzolo come studenti di una scuola tedesca. La città era un delirio. È stato eccitante essere un teenager che si diploma a Istanbul all’inizio del nuovo millennio.
In quale misura le tue personali esperienze a scuola hanno avuto un’influenza sul tuo nuovo film? C’è stato un evento specifico che potrebbe essere descritto come il punto di partenza del progetto?
C’erano due ragazzi nella nostra classe che, durante i momenti in cui erano liberi, andavano nella classe dove si faceva educazione fisica. E lì rubavano dalle giacche e dalle tasche degli studenti che stavano facendo lezione. Questa cosa è andata avanti per un pezzo. Noi tutti lo sapevamo, ma non abbiamo detto niente perché nessuno voleva passare per uno spione. Ricordo chiaramente quando un giorno − stavamo facendo lezione di fisica − tre insegnanti sono entrati e hanno detto: ‘Tutte le ragazze fuori, tutti i portafogli dei ragazzi sulla cattedra!’ Il ricordo di quell’evento mi è tornato in mente durante una delle mie vacanze con Johannes. Gli avevo raccontato di come la donna delle pulizie dei miei genitori fosse stata sorpresa a rubare. Allora Johannes mi ha raccontato di sua sorella, che è un’insegnante di matematica. C’era stato un incidente nella sua scuola perché erano stati commessi dei furti nella sala professori. Questa conversazione ci ha fatto ritornare con la mente a quando andavamo a scuola e abbiamo pensato: questa potrebbe essere una storia interessante.
Come hai condotto le tue ricerche sul funzionamento della scuola di oggi?
Innanzi tutto sono andato nella mia vecchia scuola di Berlino, dove il preside, che si ricordava perfino di me, mi ha accolto a braccia aperte. In effetti avrei voluto girare lì ma la cosa non ha funzionato a causa dei finanziamenti. Questo preside ci ha aiutati nello sviluppo della sceneggiatura, proprio come la sorella di Johannes. Insomma, abbiamo avuto molte conversazioni con una buona dozzina di persone di diversi settori del sistema educativo, con insegnanti, presidi, psicologi scolastici e insegnanti di sport, i quali ci hanno spiegato cosa siano le strategie di team-building, alcune delle quali vengono mostrate nel film.
Cosa è cambiato da quando andavi a scuola tu?
Quello che accadeva allora, insegnati che semplicemente entravano in classe e frugavano nelle borse, non potrebbe più accadere oggi. È stato confermato dalle nostre ricerche. Tuttavia una procedura del genere sarebbe ammessa se si provasse che l’azione è stata volontaria. Ecco il motivo per cui la proposizione subordinata: ‘Tutto questo avviene su base volontaria, ma se non avete niente da nascondere, non avete niente da temere’ viene
menzionata spesso nel nostro film. Ovviamente ciò è totalmente sleale, perché questa procedura non avviene tra soggetti che si trovano allo stesso livello, ma tra insegnanti e studenti. Quello che è cambiato rispetto all’epoca in cui andavo a scuola io è, soprattutto, come si comunica. Oggi ci sono gruppi WhatsApp, genitori che si scambiano continuamente informazioni. La linea di comunicazione è molto più breve. Quando sorge un problema viene affrontato molto più rapidamente. Ho anche la sensazione che oggi i genitori mostrino maggior fiducia in loro stessi, specialmente quelli che mandano i loro figli nelle ‘scuole migliori’.
Come hai sviluppato la sceneggiatura con Johannes Duncker? Che forma ha preso la vostra collaborazione?
Johannes ed io abbiamo avuto l’idea di base, sulla quale il nostro produttore Ingo Fliess ci ha incoraggiati. Ingo ci ha mandati tre o quattro volte a trascorrere una settimana in una casa nella foresta, in modo da garantirci un ambiente in cui avremmo potuto concentrarci. Lì abbiamo fatto lunghe passeggiate, abbiamo parlato del tono che avrebbe dovuto avere il film, cosa volevamo comunicare, quali temi sociali volevamo affrontare. Dopo questi ‘ritiri’, siamo tornati a casa pieni di idee, che abbiamo trasferito sui nostri rispettivi computer – Johannes a Colonia, io a Berlino − in un documento condiviso che si è evoluto in una sceneggiatura.
Nello sviluppare la sceneggiatura qual era per voi l’aspetto fondamentale? Cos’era importante per voi, cosa vi interessava davvero?
Volevamo analizzare un sistema, riflettere sulla nostra società. La scuola è un buon punto di partenza, è come un laboratorio, perché nel suo microcosmo mostra la nostra società; è una specie di modello in scala: c’è il capo di Stato, ci sono i ministri, la stampa, le persone comuni… Ma La sala professori tratta molti temi diversi. Un aspetto centrale per me è quello di trovare la verità, la ricerca della verità, o come si finisce col credere in una verità. Importante è anche quello in cui si crede. Il ragazzo vuole credere in sua madre, l’insegnante vuole credere nella giustizia. Le fake news, l’annullamento di una cultura o, per esempio, il bisogno di ogni società di trovare un capro espiatorio − questi sono alcuni tra i temi affrontati nel film.
Come sono stati sviluppati i personaggi? Quanto velocemente è stato creato questo microcosmo?
Sapevamo di avere una classe e uno staff, un’insegnante come protagonista, una segretaria. Per cui abbiamo inserito una manciata di insegnanti e una manciata di studenti nella sceneggiatura. Mentre facevamo il casting per la classe, mi sono reso conto abbastanza presto del fatto che ciascun bambino della classe dovesse essere importante. Non volevo dividere i ragazzi in attori e comparse. Abbiamo messo su una classe come un collettivo, con il motto: ‘siamo tutti uniti, ciascuno di noi è egualmente importante. Si va avanti tutti insieme’. Anche se alcuni ragazzi non avevano battute nel film, tutti avrebbero dovuto avere la possibilità di contribuire. Per quanto riguarda i ruoli degli adulti, Johannes ed io abbiamo inserito i personaggi che ci interessavano e per i quali la nostra direttrice casting Simone Bär ha dato straordinari suggerimenti riguardo ai possibili interpreti. Ecco come abbiamo formato il nostro cast.
Leonie Benesch interpreta la protagonista. Perché era proprio lei quella giusta?
Ricordo che abbiamo ricevuto le foto degli attori nella nostra casa nella foresta. La foto di Leonie Benesch era lì fin dal principio. Molto tempo prima avevamo chiesto di lei. Ho sempre immaginato il film con Leonie perché ammiro il suo lavoro da anni. Sebbene abbiamo fatto altri provini, per me è stato evidente fin dall’inizio: era lei la mia Carla Nowak.
Chi è Carla Nowak?
Carla Nowak è esattamente come viene percepita dagli spettatori sullo schermo, quello che vedono, come interpretano quello che fa. Abbiamo deliberatamente scelto di non mostrarne la vita privata. Non mostriamo né che auto guida, né dove vive, e neanche se abbia o meno un fidanzato. Queste cose non servirebbero. All’inizio ne abbiamo discusso molto perché c’erano alcuni che sentivano il bisogno di avere più informazioni sulla protagonista. Ma io non ho mai avuto dubbi rispetto alla decisione presa. Non è rilevante se Carla Nowak abbia o meno un animale domestico o quale sia il colore delle pareti nel suo appartamento. Il carattere di una persona si rivela sempre nei momenti difficili, quelli in cui bisogna prendere delle decisioni. Quando si è sotto stress, quando bisogna affrontare dei problemi. Con questa premessa in mente, ho messo il personaggio nelle mani di Leonie. Raramente ho dovuto comunicare con un’attrice sul set così poco come mi è successo con Leonie. La sua prima proposta era sempre così buona che molto di rado sono dovuto intervenire per delle correzioni.
Quando facevate il casting cos’era importante per te trovare negli altri attori?
Anche per tutto il resto del gruppo degli attori dobbiamo essere grati a Simone Bär. Mi ha sempre detto che c’erano così tanti bravi attori e attrici nel cast che avremmo dovuto fare in modo che nessuno emergesse troppo rispetto agli altri. Ritengo che sia stato l’approccio giusto per questo film, perché io lo vedo come un lavoro collettivo.
Per il personaggio di Thomas Liebenwerda, ho pensato che fosse interessante avere un attore di colore. Ho discusso con Michael Klammer su quanto sarebbe stato effettivamente assurdo accusare qualcuno come Liebenwerda di razzismo. Ma viviamo in un’epoca assurda e in qualche modo il film rappresenta anche un tentativo di mostrare la confusione che caratterizza il mondo in cui viviamo. Basta andare su Twitter.
Rafael Stachowiak è entrato a far parte del cast perché volevo un attore che parlasse polacco. Come Michael Klammer, lui è un eccellente attore di teatro. L’idea del background polacco per Carla Nowak mi è venuta in mente perché io stesso avevo una collega turca che mi rispondeva insistentemente in tedesco quando mi rivolgevo a lei in turco. Questa cosa mi infastidiva. Capisco quando ci sono diverse persone nella stanza e tu non vuoi sembrare maleducato parlando una lingua straniera… Ho messo questa situazione in La sala professori con Carla Nowak e Milosz Dudek per indicare un bisogno di assimilazione, il desiderio di non voler essere notati, di vergognarsi delle proprie origini.
Eva Löbau, che interpreta la parte della segretaria della scuola, è per me semplicemente fenomenale. Riesce ad essere incredibilmente fragile e buffa allo stesso tempo. Sarei rimasto a guardarla in eterno. Ma lo stesso vale per Sarah Bauerett, Anne Kathrin Gummich e Kathrin Wehlisch. Colleghe meravigliose. Sono davvero grato a tutto questo cast straordinario.
Come sei riuscito a rendere così autentiche la classe e la vita di tutti i giorni in una scuola?
Durante il periodo delle riprese mi sono sempre preso tre quarti d’ora al mattino per parlare con il cast e con i bambini. Per parlare di qualsiasi cosa: dei sogni, delle paure, dell’identità, della vergogna… Volevo alleggerire la pressione che caratterizza le giornate su un set. Intanto la mia troupe aspettava fuori, e la mia direttrice della fotografia Judith Kaufmann spesso si spazientiva perché voleva approfittare della luce del giorno che, ovviamente, c’è solo per un tempo limitato se giri un film a novembre. Ma queste conversazioni erano importanti per me. Volevo incontrarmi con gli attori per parlare di argomenti che ci avevano toccato. E nella maggior parte dei casi ci sono poi volute solo poche riprese per ogni scena da girare.
Come hai trovato i bambini e come hai lavorato con loro? Inoltre, come hai spiegato loro esattamente di cosa trattava il film?
L’obiettivo era quello di mettere insieme una classe della seconda media. Cioè cercavamo bambini tra gli undici e i quattordici anni. Questa fascia di età è caratterizzata dal fatto che si tratta di bambini che per certi aspetti sono già molto avanti ma ce ne sono anche alcuni che sono molto sognatori. Era importante per me vederne tanti per potermi fare un’idea di questa generazione. Insieme al mio direttore casting per i bambini, Patrick Dreikauss, invitavamo gruppi di quattro o cinque di loro ad interpretare una scena. Io assegnavo loro l’insegnante con il quale dovevano discutere e spiegare perché volevano prendere parte ad una manifestazione di ‘Fridays for Future’, per esempio. Dopo aver ricevuto un testo da leggere, avrebbero dovuto improvvisare. Questo è servito per una prima scrematura ed è servito soprattutto a far emergere subito i ragazzi più pronti e all’erta. Questa fase è andata avanti per due settimane di casting intenso, durante le quali la ricerca per il nostro Oskar è proseguita in parallelo. Quando un gruppo di 23 bambini è stato messo insieme, ho avuto con tutti loro delle conversazioni individuali. È servito a creare uno spirito di gruppo, Dicevo loro: non siete bambini, qui siete dei colleghi. Ho dato loro le informazioni di base, ma non su quali fossero i temi prevalenti di La sala professori, spiegando invece come va letto un piano di riprese, a cosa fare attenzione sul set. Per me era importante trasmettere un’idea di solidarietà, di famiglia. Sul set avevamo quelle chiacchierate al mattino con me, e anche con Leonie, di cui parlavo prima, seguite dalle prove e poi dalle riprese.
In un momento in cui la discussione sociale è molto accesa, ti sei avventurato su un vero campo minato, rendendoti vulnerabile agli attacchi. Ti aspetti delle critiche? Sei preparato ad affrontarle?
Non sono preoccupato di questo, perché credo nella storia del film. Non so neanche a chi potrei dare fastidio con questo film. Credo anche che La sala professori non sia una critica esplicita al nostro sistema scolastico. O che critichi apertamente i ragazzi del giornale della scuola. O i genitori. Tutti in questo film cercano di primeggiare e vogliono aver ragione, Ma se accendi la TV e guardi un qualsiasi talk show, vedi esattamente la stessa cosa.
Come ti è venuta l’idea del Cubo di Rubik?
Johannes ed io abbiamo discusso di matematica, algoritmi e prove e ci siamo chiesti come avremmo potuto visualizzare questi concetti astratti. Il Cubo di Rubik si è presentato naturalmente, anche perché ha qualcosa in sé di infantile.
Durante la lezione di matematica i bambini apprendono che una prova scaturisce dalla correttezza di un’affermazione che viene definita a prova di errore. Questo è esattamente ciò in cui fallisce Carla Nowak nella storia…
In fondo rimane abbastanza ambiguo. La signora Kuhn è una ladra? Chi può saperlo? Potrebbe essere innocente. Resta un minimo di dubbio. Finché è così, non puoi essere certo di niente. Anche Carla Nowak se ne rende conto, e da questo deriva il grande dilemma.
Il film si chiude con una scena estremamente efficace. Come siete arrivati a questa immagine finale? Qual è la vostra interpretazione?
La scena finale è stata un’idea di Johannes. Io la interpreto come un commento, come una dichiarazione di resistenza, affinché nessuno si lasci schiacciare dal sistema. Quello che fa Oskar è ammirevole, in un ambiente che lo pone come Davide di fronte a Golia. Volevo garantirgli questa uscita di scena. Sono stato molto influenzato dalla storia di Herman Melville “Bartleby” scrivendo la sceneggiatura di La sala professori. È la storia di un ‘rifiuto’ che termina con la morte del protagonista e la frase ‘Oh Bartleby, oh umanità’. All’epoca era interpretato come una critica al consumismo. Quella storia mi è rimasta dentro per oltre 20 anni. Nel periodo precedente alle riprese ne ho dato una copia a Leonie. Dopo averlo letto, mi ha detto che la storia l’aveva molto depressa. Mi è venuto da ridere. Onestamente mentre lavoravo a La sala professori, neanch’io sapevo esattamente che messaggio sarebbe venuto fuori dal film alla fine. Ma in fondo quello che importa non è affermare qualcosa ma porsi delle domande. Questo è il modo in cui mi piace fare cinema. Il processo di girare un film che si è scritto è sempre un viaggio nell’ignoto. Se conosci già la destinazione del viaggio, questo diventa noioso. Per alcuni film si tratta più di sapere che sensazione ti lasceranno. Per La sala professori non lo sapevo. È stato un percorso verso una scoperta.
Come descriveresti il tuo rapporto con la direttrice della fotografia Judith Kaufmann?
Non avrei potuto girare questo film senza Judith. Judith è diventata una partner molto importante in termini di contenuto. Arricchisce la mia visione del mondo, discutiamo su molti argomenti, parliamo della nostra professione, della pressione sociale, dei ruoli di genere. Judith tira fuori sempre grandi idee e immagini. Judith è una direttrice della fotografia di enorme esperienza, mi considero fortunato per averla al mio fianco. La fortuna più grande che ti può capitare da giovane regista è quella di avere al tuo fianco una persona così in gamba e competente. Siamo da lungo tempo anche ottimi amici.
Nel 2023 il cinema è il luogo adatto per dibattiti sociali?
Certo, il cinema è un luogo che può essere usato per dibattiti sociali. Ma non in modo ossessivo. Per me il cinema è anche evasione e voyeurismo. Il cinema è come una chiacchierata attorno al fuoco. Non mi piace il cinema programmatico. Ma ovviamente sono
felice quando ci sono film che accendono una discussione. Soprattutto mi fa piacere constatare che c’è di nuovo speranza per il cinema dopo il periodo della pandemia. Sono andato a vedere Triangle Of Sadness e la sala era piena. L’esperienza collettiva di ridere insieme, di piangere insieme, è qualcosa di molto speciale. Nessuno streaming al mondo riuscirà mai ad eguagliare questo tipo di emozione.
Ti distingui per un cinema molto coinvolgente, empatico, umano. Credi che sia facile raccontare storie che ti stanno a cuore?
Girare è facile, mettere in scena è facile. Ma lo sviluppo è doloroso quanto un parto. Il processo di scrittura richiede molta disciplina, consiste nel mettere molto in discussione se stessi e le proprie idee; è fatto di trascrizioni, riscritture e di materiale che viene buttato nel cestino. Fino a quando non è abbastanza buono. Se dicessi che è facile per me, mentirei. Ma trovo giusto che sia così. La scrittura fa parte del cinema, proprio come le riprese, il montaggio, il giudizio finale. Tutto questo è cinema. Ecco perché scrivere per me fa parte dell’intero spettacolo. Confrontarsi con il materiale: cosa voglio realizzare, cosa voglio dire, dove voglio andare, cosa voglio ottenere con questi film? Nessuna di queste domande prevede una risposta semplice, si tratta di domande che spesso mi fanno disperare. Ma posso fare questo lavoro solo se tratto argomenti che mi interessano, che riguardano me, la mia realtà e la società nella quale viviamo. Ogni sceneggiatura e ogni film deve avere qualcosa per cui vale la pena alzarsi presto al mattino. E questo alzarsi presto non è sempre facile all’inizio. Perché devi convincere tante persone delle buone qualità di ciò che scrivi: editori, giurie, attori. Con ogni sceneggiatura ti metti a nudo, la offri alla gente e speri che piaccia. Si tratta di situazioni cariche di paura. Non puoi imparare la drammaturgia dal giorno alla notte. Spesso ci vogliono anni prima di che tu riesca a liberarti dai condizionamenti sociali, ad essere in grado di pensare in modo diverso, a non scrivere quello che hai già visto migliaia di volte. Spero solo che invecchiando tutto questo mi riesca più facile. I geni che sono tra noi, li invidio. Per me si tratta di duro lavoro.
INTERVISTA A LEONIE BENESCH
“Un’atmosfera speciale fatta di ascolto e condivisione”.
Quando ripensi alla tua infanzia, che ricordi hai dei tuoi insegnanti? Avevi un insegnante preferito?
Durante la mia infanzia e la mia giovinezza ci siamo trasferiti spesso. Questo significa che ho dovuto spesso cambiare scuola. Però ho sempre frequentato le scuole Waldorf (che adottano il metodo steineriano) per l’intero percorso educativo. Questa forma di insegnamento con il suo approccio idealistico e senza voti è stata per me quella giusta, sebbene oggi io abbia dei dubbi sulle scuole Waldorf. Se ripenso ai miei insegnanti preferiti mi viene in mente il professor Brückmann. Quando avevo 14 anni ci siamo trasferiti da Bielefeld a Tübingen. Il professor Brückmann insegnava storia ed etica nella locale scuola Waldorf. Era bravissimo a provocare discussioni e a facilitare le conversazioni, insegnava in modo molto anti-autoritario e gentile, ed era molto paziente. D’altro canto ricordo anche Riva Siedner, un’anziana signora franco-ebrea che insegnava francese. Era conosciuta nella nostra classe come ‘il cerbero’. Guai a te se non avevi fatto i compiti!… Però non ho mai imparato di più che come con questa donna! Quando penso agli insegnanti mi rendo conto di apprezzare l’autorità quando serve. Quando qualcuno figurativamente mi dà un buffetto, lo apprezzo, se quella persona sa quello che fa. È stato lo stesso alla scuola di recitazione. Ho capito benissimo gli insegnanti che lì ci sgridavano. Non mi piace l’autorità solo quando è ingiusta o non serve.
Qui tu stessa interpreti un’insegnante zelante e idealista. I ricordi dei tuoi giorni di scuola ti hanno aiutata a costruire il personaggio?
Ho dovuto ripensare a cosa funzionasse in un’aula rumorosa, come fare per far tacere i bambini. Ha molto a che vedere con l’atteggiamento che hai, e con la pazienza. İlker aveva anche fatto molte ricerche su diversi aspetti dell’insegnamento, registrando quello che ne era emerso nella sceneggiatura, oppure me ne aveva parlato. Da tutto questo ho potuto trarre molta ispirazione. Una regola base con i bambini consiste nel prenderli sul serio e prestare loro attenzione. Nella mia interpretazione ho cercato di attenermi a questo.
Quando sei un’attrice appena trentenne, interpretare una figura che possiede una certa autorità, come un’insegnante, potrebbe non essere così facile. Cosa hai pensato all’inizio quando hai saputo del progetto? Come ti ci sei immaginata? Ti sei sorpresa di essere stata presa in considerazione per la parte?
Ho ricevuto la sceneggiatura con la richiesta di registrare in video una scena. Leggendola mi sono subito resa conto di quanto İlker sia bravo ad usare il linguaggio, e che grande osservatore sia. Il fatto che potessi essere troppo giovane per la parte, o piuttosto l’idea che uno possa interpretare il ruolo di un insegnante solo quando è più grande di età, non mi è mai passata per la mente. Anzi, ero elettrizzata da quanto fosse intelligente la sceneggiatura. Una cosa come questa non capita ogni giorno. D’altronde ci sono molti giovani insegnanti in età tra i 20 e i 30 anni, o perché stanno completando il loro apprendistato o perché stanno iniziando il loro percorso professionale, come Carla Nowak, iniziando le loro carriere imbevuti di idealismo e pieno di slancio, con il forte desiderio di fare le cose diversamente.
Ti sei immedesimata in Carla Nowak?
Ho un approccio molto moderato con l’e-castings e i video. Se sono interessata ad un ruolo, voglio fare un buon lavoro. Ma fondamentalmente mi limito a fare la mia registrazione, la spedisco e poi me ne dimentico. Per La sala professori, la richiesta mi è arrivata tra due grossi impegni nella primavera del 2021. Ero appena rientrata dalle riprese per la serie “Around the World in 80 Days” in Sud Africa, e avevo un mese e mezzo di pausa a Berlino prima di spostarmi sul set di “The Swarm” in Italia. La sceneggiatura mi aveva molto colpita, avevo trovato la storia molto interessante. Ma non è che avessi visto qualcosa di Carla Nowak in me o che il personaggio mi avesse catturata particolarmente. Pensavo piuttosto al fatto che avrebbe potuto essere una collaborazione interessante, che dietro il progetto c’era una mente brillante e volevo scoprire cosa avesse in testa.
Non viene detto molto del background e della vita privata di Carla Nowak, ma si ha il sospetto, grazie a molti indizi, che il personaggio abbia una vita oltre quella che si vede sullo schermo. Era importante per te saperne di più su di lei?
Ne so di lei quanto chiunque altro abbia letto la sceneggiatura. Da quella deduciamo che Carla Nowak ha un’età a cavallo tra i 20 e i 30 anni e che ha iniziato a lavorare in quella scuola da insegnante pochi mesi prima. E che ha origini polacche. Oltre questo non si sa niente. E neanche io ho chiesto di più. Per me tutte le informazioni di cui avevo bisogno per la parte erano nella sceneggiatura. Sono una grande sostenitrice dei testi e del linguaggio del corpo. Tendo a non avvicinarmi ai ruoli cercando di conoscerne il background, non ho bisogno di sapere cosa una persona mangi per colazione, o come ha vissuto la sua infanzia. Per me non ci sarebbe stata alcuna differenza se avessi saputo se Carla Nowak preferisce i gatti o i cani, o che tipo di cereali mangia a colazione. Forse questo può cambiare da progetto a progetto. Nel caso di La sala professori ogni scena aveva un obiettivo preciso. C’è il personaggio, c’è un ostacolo, e da quello deriva la spinta ad agire del personaggio. Questo paradigma è chiaro in ogni scena. Non ho avuto bisogno di immaginare altro per spiegare a me stessa perché mi trovavo in una situazione oppure in un’altra. Questa è una caratteristica di ogni buona sceneggiatura.
Cosa ti piace della storia? Secondo te di cosa tratta?
Questa è una domanda a cui è difficile rispondere. Credo che La sala professori sia una riflessione sul dibattito culturale in corso. In Carla Nowak vediamo una persona che vorrebbe fare tutto giusto, ma fallisce continuamente per diverse ragioni. Questo accade per incomprensioni intenzionali o involontarie. İlker ha catturato un elemento essenziale del nostro presente.
C’è un vecchio detto che dice che nel cinema si dovrebbe evitare di lavorare con i bambini e con i cani. Tu hai dovuto vedertela con un’intera classe. Com’è stata questa esperienza? Come ti sei accostata ai bambini?
Tutti i miei amici mi hanno presa in giro quando ho detto loro che avrei interpretato un’insegnante di matematica e di educazione fisica e che sarei stata solo con dei bambini per sei settimane. Qui devo dare ogni merito anche a İlker. Ha messo insieme questa classe in
modo eccezionale. Sono dei bambini talmente interessanti e carini. Ovviamente a volte facevano anche chiasso e non è stato sempre tutto facile. Ma Judith Kaufmann, la nostra direttrice della fotografia, İlker ed io siamo stati a cena recentemente e ci siamo detti di nuovo che non avremmo voluto lavorare in nessun altro modo. Ciò che İlker ha investito qui in termini di tempo e di metodi speciali di lavoro è qualcosa che non mi era mai capitato di vivere. Ogni giorno prima di iniziare le riprese ci riunivamo sul set dell’aula io ed İlker con i ragazzi per parlare di ogni genere di cose di tutti i giorni. È stato incredibilmente toccante, meraviglioso e, talvolta, frustrante. İlker ha saputo creare un’atmosfera fatta di ascolto e condivisione. È vero che dopo cinque ore di riprese con i ragazzi ti senti anche esausto perché c’è chiasso e confusione. Ma andava bene così perché İlker ha speso tanto tempo e amore, ed è riuscito a mantenere sempre una straordinaria atmosfera. Judith, da parte sua, è stata spesso in grado di ottenere riprese in stile documentaristico con la sua macchina da presa a spalla durante le conversazioni del mattino, catturando le reazioni naturali dai bambini, alcune delle quali sono perfino finite nel film. Trovo tutto questo incredibilmente bello.
Cosa distingue İlker Çatak come regista?
İlker è in gamba, sa ascoltare e allo stesso tempo sa esattamente quello che vuole. È aperto ai suggerimenti, ma se questi non corrispondono a quello che aveva in mente o vanno in una direzione che non gli piace, resta fermo nella sua idea. È una combinazione eccellente. Si rende anche vulnerabile nei confronti degli attori, perché si irrita se qualcuno non è d’accordo con lui. È sempre un incontro alla pari.
Come mediatrice, Carla Nowak è costantemente intrappolata tra due fronti e il suo impegno è frantumato tra le diverse parti. È stata un’interpretazione particolarmente faticosa sul piano psicologico? Durante le riprese qual è stato l’aspetto che ti è sembrato più impegnativo?
Generalmente non mi porto dietro lo stress del set. Ci sono colleghi che in questo sono molto diversi. In effetti lavorare per La sala professori è stato per me incredibilmente liberatorio, perché ho potuto imparare molto e anche mettere in pratica quello che ho imparato alla scuola di recitazione. Gran parte dell’impegno è stato concentrato sul momento. Una volta a casa non ho mai avuto la sensazione di non potermi liberare dello stress. Psicologicamente stavo bene, ero solo un po’ stanca per le riprese precedenti per “Around the World in 80 Days” e “The Swarm”. Questo è stato l’aspetto più faticoso.
THE TEACHERS’ LOUNGE è un film che pone domande urgenti sul vivere insieme in una società moderna, ma si rifiuta di offrire risposte semplicistiche. L’ultima scena del film è esemplare rispetto a questo. Qual è la tua interpretazione?
È un finale intelligente. È tutto quello che posso dire. Non so neanche se la segretaria sia una ladra, non so chi avesse ragione. Ma in fin dei conti ha importanza questo? Mi chiedo se nel discutere su chi abbia ragione non perdiamo di vista cosa stiamo provocando con quella discussione.
Sei orgogliosa di questo lavoro? Che significato ha nel tuo percorso professionale?
Sono totalmente orgogliosa e felice di questo lavoro. Se potessi, farei immediatamente un altro film con İlker, Judith e Ingo. Idealmente mi piacerebbe girare un piccolo, bel film arthouse all’anno e un progetto più grosso per pagare l’affitto e per mantenermi. Se guardo indietro agli ultimi anni, I due migliori progetti sono stati “Around the World in 80 Days” e La sala professori. Non sono assolutamente paragonabili. Ma sono i due progetti che avrei sempre voluto fare. Questo dipende dallo spirito di collaborazione, dal comportamento delle persone coinvolte, dall’approccio nel raccontare le storie. Più faccio questo lavoro, più questi aspetti diventano importanti. Si tratta della qualità del tempo trascorso insieme durante le riprese. La sala professori ha rappresentato una delle esperienze sul set più belle che io abbia mai avuto.
DAVANTI ALLA MACCHINA DA PRESA
Leonie Benesch (Carla Nowak)
Nata ad Amburgo nel 1991, Leonie Benesch, che si è formata alla Guildhall School of Music and Drama di Londra, è una delle giovani attrici tedesche più richieste del momento. È stata scoperta per la sua interpretazione nel film premiato con la Palma d’Oro a Cannes Il nastro bianco (2009), diretto da Michael Haneke. Grazie a questo film ha ottenuto un American Young Artist Award oltre ad un New Faces Award come migliore giovane attrice. Oltre ad essere impegnata al cinema, Leonie Benesch ha lavorato per i canali di ARD e ZDF, in film per la televisione quali “Der Club der singenden Metzger” di Uli Edel e serie poliziesche quali “Soko Köln” o “Tatort”.
Leonie Benesch è diventata un volto conosciuto dal grande pubblico nel 2017: è apparsa nella prima di tre stagioni nei panni di Greta Overbeck nella coproduzione ARD-Degeto-Sky “Babylon Berlin”. Per la sua interpretazione ha ricevuto il German Acting Award. Nel 2017 ha preso parte a due episodi della serie premiata di Netflix “The Crown”. Le sue interpretazioni più recenti comprendono quelle nel film TV in più parti “Spy City”, nella miniserie di Netflix “Time of Secrets” e nel film drammatico sull’Olocausto Persischstunden (2020) di Vadim Perelman, presentato alla Berlinale, oltre che nella serie coprodotta da Germania, Francia e Italia “Around the World in 80 Days” con David Tennant. Infine Leonie Benesch è apparsa in televisione nella serie blockbuster “Der Schwarm” tratta dal bestseller di Frank Schätzing.
DIETRO LA MACCHINA DA PRESA
İlker Çatak (Regista e sceneggiatore)
Ilker Çatak è nato a Berlino nel 1984 e, figlio di immigrati turchi, si è trasferito all’età di dodici anni ad Istanbul, dove si è diplomato assieme al co-sceneggiatore Johannes Duncker presso la locale German School. İlker Çatak è poi rientrato in Germania e ha lavorato per quattro anni in produzioni cinematografiche tedesche e internazionali.
Già nel 2005 aveva attirato l’attenzione con i suoi primi cortometraggi, come “Als Namibia eine Stadt war…” (diretto in collaborazione con Johannes Duncker), prima di diplomarsi in regia cinematografica e televisiva nel 2009. Ha conseguito poi un master in regia alla Media School di Amburgo. In quel periodo ha realizzato, tra gli altri, i cortometraggi “Alte Schule” e “Wo wir sind”. Con quest’ultimo İlker Çatak ha vinto il concorso come miglior cortometraggio al Max Ophüls Festival nel 2014 e ha ricevuto una candidatura allo Student Academy Award. L’anno successivo il regista ha confermato il suo talento e ha convinto le giurie con il suo film del diploma “Sadakat”. İlker Çatak non solo ha ricevuto il Max Ophüls Prize e il First Steps Award per il miglior cortometraggio − ma ha anche ottenuto il prestigioso Student Oscar® in Gold per il miglior cortometraggio in lingua straniera.
Nel 2017 Çatak ha realizzato il suo primo lungometraggio, Once Upon A Time…Indianerland, un adattamento del celebre romanzo per ragazzi di Nils Mohl. A questo ha fatto seguito nel 2019 I Was, I Am, I Will Be, suo secondo lungometraggio. Ingo Fliess era incaricato della produzione. Il film è stato proiettato al Filmfest München nel 2019 dove ha meritato due premi e, all’inizio del 2020, già candidato diverse volte per il German Film Award, ha vinto il premio Lola in Bronzo nella categoria miglior film. Nel 2021 il regista ha poi girato un adattamento del romanzo di successo di Finn-Ole Heinrich Stambul Garden e ha diretto il suo primo episodio della serie “Tatort”: per Räuberhände, così come per “Borowski und der gute Mensch”, Çatak ha collaborato con la direttrice della fotografia Judith Kaufmann.